In Italia la politica rompe il tabù della mobilitazione militare
Per anni, in Italia, la parola mobilitazione è rimasta chiusa nel cassetto buono, quello che si apre solo quando si parla del passato. Apparteneva alla memoria delle caserme, alla cartolina di leva, alle foto in bianco e nero dei diciottenni con la valigia in mano. Oggi, senza che quasi ce ne accorgiamo, quella parola sta rientrando nel lessico della politica italiana. Non nelle chiacchiere dei nostalgici, ma nei discorsi ufficiali, nelle proposte di legge, persino nei questionari rivolti agli adolescenti. Non siamo ancora alla chiamata di massa, ma il tabù è stato incrinato.
L’Italia intanto ha un ruolo centrale nella Nato. Il presidente del Comitato militare dell’alleanza è un italiano, l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone. Non è un volto qualsiasi, è la figura che traduce politicamente ciò che i comandi militari pensano e propongono. Nelle sue recenti dichiarazioni ha aperto la porta all’idea che la Nato debba adottare una postura più dura nei confronti della Russia, soprattutto sul fronte della guerra ibrida e degli attacchi informatici.
Il punto non è solo tecnico. Quando un alto ufficiale parla di colpire preventivamente infrastrutture e reti avversarie nel campo cyber, sta dicendo che la difesa potrebbe includere l’opzione di agire per primi. L’alleanza nata ufficialmente come strumento difensivo comincia a ragionare apertamente su mosse che somigliano molto a una spada. Mosca reagisce, accusa la Nato di voler alzare il livello dello scontro, i governi occidentali minimizzano, ma il messaggio passa: l’ipotesi di un conflitto diretto con la Russia non è più una fantasia da romanzo distopico, è lo scenario implicito sul quale si discute.
In parallelo, a Roma, si rimette mano a un altro pezzo di storia. Il ministro della Difesa Guido Crosetto, dice di voler lavorare a una forma di ritorno del servizio militare. Per evitare il cortocircuito immediato con l’opinione pubblica, lo chiama “leva volontaria”. Una formula che a prima vista suona rassicurante, ma che se ci si pensa un momento non sta in piedi.
In Italia la leva obbligatoria è stata sospesa nel 2005. Da allora chi indossa una divisa lo fa per scelta. L’apparato militare è basato su arruolamento volontario e su contratti. Nessuno viene più chiamato coattivamente a presentarsi in caserma. Il servizio militare, insomma, è già volontario. Se il problema fosse soltanto reclutare più persone, lo si potrebbe fare ampliando i concorsi, creando incentivazioni, istituendo forme di riserva all’interno del modello professionale esistente, senza bisogno di resuscitare la parola leva.
Ed è proprio qui che si vede lo scarto. La leva, per definizione, richiama l’idea di coscrizione, di Stato che può attingere a un’intera classe anagrafica per esigenze militari. Rimettere quella parola nel discorso ufficiale non serve sul piano giuridico, serve sul piano simbolico. È una spinta psicologica. Significa dire agli italiani: forse non ora, forse non domani, ma l’idea che il Paese possa tornare a chiedere un impegno militare diretto a una parte molto più ampia della popolazione non è più un tabù.
La formula “volontaria” funziona da calmante. Verrà ripetuta, spiegata, difesa. Si dirà che nessuno verrà costretto, che si tratta solo di creare una riserva, di dare opportunità formative ai giovani, di costruire cittadinanza attiva. Intanto però la barriera mentale è stata spostata. Il tema della leva torna legittimo. Se ne può parlare nei talk show, nei comizi, nelle interviste. Una volta che una cosa entra nel vocabolario, diventa molto più facile, un domani, trasformarla in provvedimento concreto.
Nella stessa fase in cui il ministro riporta in vita la leva, un’altra istituzione, sulla carta lontanissima da caserme e fucili, compie un passo che va nella stessa direzione. L’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza pubblica un questionario online rivolto ai ragazzi tra i 14 e i 18 anni. L’argomento dichiarato sono la guerra e i conflitti. Tra le varie domande ce n’è una che colpisce più delle altre: ai ragazzi viene chiesto quanto si riconoscano nell’affermazione secondo cui, se il proprio Paese entrasse in guerra, si sentirebbero responsabili e, se necessario, si arruolerebbero.
Qui non siamo più davanti a una generica riflessione sulle guerre nel mondo o sulla pace. Si porta un minorenne a misurarsi con la possibilità concreta di andare in guerra per il proprio Stato. Si chiede a un quattordicenne di immaginarsi soldato. Il linguaggio è praticamente identico a quello di una campagna di reclutamento, solo che a farlo non è un ministero della Difesa, ma un’autorità che dovrebbe occuparsi di tutelare diritti e benessere degli adolescenti.
Molti ragazzi, stando ai dati diffusi, rispondono di non essere disposti ad arruolarsi. È un segnale importante. Racconta un rifiuto abbastanza netto, soprattutto tra le ragazze. Ma la questione non si chiude con la statistica. La domanda resta: che cosa ci dice di un Paese il fatto che inizi a sondare, in modo istituzionale, la disponibilità alla mobilitazione militare nella fascia d’età che fino a ieri pensavamo dovesse essere protetta da questo tipo di scenari?
Il questionario viene criticato, soprattutto da chi vede in quella formulazione un passo oltre la linea. Vengono sollevati dubbi sulla metodologia, sul rischio che si normalizzi la guerra presentandola come un’opzione tra le altre, magari accostandola ai conflitti quotidiani tra coetanei, in famiglia, sui social. Al di là delle intenzioni di chi lo ha scritto, il risultato è chiaro: l’idea che i ragazzi possano essere chiamati a combattere smette di essere un pensiero indicibile e diventa oggetto di domanda ufficiale.
Se uniamo i puntini, il quadro che emerge è piuttosto netto. Da un lato l’Italia che nella Nato ha una voce militare di primo piano, e quella voce parla senza troppi giri di parole di attacchi preventivi contro la Russia nel campo cyber. Dall’altro un ministro della Difesa che rimette sul tavolo la leva, seppure addolcita dal termine volontaria, e un’autorità pubblica che misura il grado di disponibilità alla guerra tra gli adolescenti. Sullo sfondo, la Francia e la Germania che discutono di come ampliare le proprie riserve, i governi europei che pianificano riarmo e spesa militare per anni a venire, la retorica del conflitto che entra nella comunicazione politica quotidiana.
Il nemico, quando si parla di tutto questo, ha quasi sempre lo stesso volto. Non si discute genericamente di guerra, si parla di Russia. La Russia è dipinta come fonte di minacce ibride, di aggressioni, di interferenze. Si insiste sull’idea che il conflitto in Ucraina sia solo un pezzo di un confronto molto più ampio e lungo, in cui l’Occidente dovrà “resistere” e “tenere il fronte” per anni. In questo contesto, immaginare una mobilitazione non significa più solo pensare a missioni all’estero o a teatri lontani, ma aver già in mente uno schema di scontro diretto, anche se ufficialmente nessuno lo dichiara.
Quando la leva fu sospesa, all’inizio degli anni Duemila, molti pensarono che si fosse voltata pagina per sempre. Erano anni in cui si parlava ancora di “dividendo di pace”, in cui la globalizzazione sembrava una strada a senso unico, le grandi guerre apparivano un relitto del Novecento e la parola mobilitazione evocava un mondo che non si sarebbe più ripetuto. A distanza di meno di una generazione, quella sicurezza è sparita.
Non è arrivato un decreto notturno che obbliga di nuovo i diciottenni a presentarsi in caserma. È successo qualcosa di più sottile. Si sono mossi, quasi contemporaneamente, tre livelli diversi: quello militare internazionale, con l’ammiraglio italiano che ragiona pubblicamente su come colpire per primi la Russia nel cyber spazio; quello politico nazionale, con il ministro che riapre il dossier della leva e ne ripulisce la parola con l’aggettivo volontaria; quello culturale e psicologico, con un’autorità che chiede ai ragazzi se si vedono pronti a combattere per il proprio Paese.
Così si rompono i tabù. Non con un singolo atto clamoroso che fa scendere la gente in piazza, ma con una serie di piccoli slittamenti che cambiano il campo su cui si gioca. Oggi è ancora possibile dire che nessuno verrà costretto, che si tratta solo di ipotesi, che la professionalizzazione dell’esercito non è in discussione. Ma intanto il modo in cui politica e istituzioni parlano di guerra, di Russia, di giovani, di servizio militare, è già cambiato.
La questione non è se domani mattina l’Italia dichiarerà la mobilitazione generale. La questione è se ci accorgiamo che stiamo entrando in una fase in cui immaginare un grande conflitto è diventato normale e in cui l’avversario, nella narrazione, è già stato scelto. Da qui in avanti il passo successivo, qualunque esso sia, sarà più facile di quanto lo fosse solo qualche anno fa.