Le sanzioni e l’illusione dell’Occidente

La strada che da Astrakhan porta ad Atyrau è piatta e senza fine. Una linea d’asfalto che attraversa steppe brulle e saline, interrotta solo da qualche piccolo villaggio. Poi, qualche chilometro prima del confine, il paesaggio cambia. Non ci sono più distese vuote, ma una coda interminabile di camion. Tir parcheggiati ai lati della strada, uno dietro l’altro, con gli autisti che fumano seduti sui gradini della cabina o preparano il tè su piccoli fornelli da campeggio. Aspettano tutti di entrare in Kazakistan.

Non è merce che lascia la Russia per andare verso est. È il contrario: quei camion sono vuoit e torneranno indietro carichi di prodotti destinati al mercato russo. La scena parla da sola: file di mezzi che smentiscono l’idea di un isolamento economico della Russia imposto dall’Occidente.

Arrivando ad Atyrau, città di petrolio e di logistica sul Caspio, il quadro diventa ancora più chiaro. Qui il commercio non si ferma mai. Le banchine del porto, i treni merci, i magazzini pieni raccontano di un’economia che ha trovato nuove rotte. Non si tratta solo di scambi tra Kazakistan e Russia, già enormi per volumi e varietà. Molto passa da qui per vie traverse: tecnologia, automobili, farmaci, prodotti chimici. Tutto ciò che i pacchetti di sanzioni avrebbero dovuto bloccare trova invece altre strade.

Viaggiando e osservando, mi sono convinto che l’Occidente abbia commesso due errori di fondo.

Il primo è pensare che le proprie sanzioni fossero universali, quasi un editto mondiale. Ma il mondo non coincide con Bruxelles, Washington o qualche capitale europea. L’Occidente è una minoranza, demografica ed economica. Gran parte dell’Asia, del Medio Oriente, dell’Africa e dell’America Latina non ha aderito alle sanzioni, continuando a commerciare con Mosca. È un punto che in Europa si fa fatica ad accettare.

Il secondo errore riguarda lo scarto tra la politica e le imprese. I governi parlano di “spezzare l’economia russa”. Le aziende, invece, ragionano in termini di mercato e profitti. Per loro la Russia è un cliente troppo grande per essere abbandonato. Così, attraverso corridoi che passano per Kazakistan, Armenia, Kirghizistan, Cina, Emirati Arabi, India e Turchia, i beni continuano ad arrivare. È un sistema parallelo, fatto di triangolazioni, che rende le sanzioni porose, quasi virtuali.

Camminando per le strade di Atyrau, guardando i container che cambiano destinazione e le banche che gestiscono transazioni in rubli, tenge e yuan, ma anche in euro e dollari, ho avuto l’impressione di trovarmi davanti a un futuro già presente. Non un futuro di isolamento per la Russia, ma un futuro multipolare in cui Mosca si inserisce in reti sempre più ampie.

Le sanzioni, nate come arma definitiva, hanno finito per accelerare la costruzione di un ordine economico alternativo, che va dai porti iraniani ai mercati indiani, dalle fabbriche cinesi ai corridoi del Caucaso. In questo quadro, a rischiare l’isolamento non è la Russia, ma l’Europa che fatica a rendersi conto di non essere più il centro del mondo, schiava ancora di una visione eurocentrica.

Ripensando a quei camion incolonnati lungo la strada da Astrakhan, mi è rimasto il senso di un simbolo rovesciato. Non la prova di un’economia piegata, ma l’immagine concreta della capacità di adattarsi, di trovare sempre un’altra via. Forse l’illusione più grande, oggi, è proprio quella dell’Occidente: credere che basti un decreto per piegare un paese grande come la Russia.