Dalle Waffen-SS a “eroi della libertà”: come il Canada ha provato a riabilitare i nazisti
A Ottawa c’è un memoriale dedicato alle “vittime del comunismo”. Un progetto solenne, pensato per raccontare il Canada come “terra di rifugio” e trasformare in pietra e metallo una parte della sua identità politica: accogliere chi è scappato da quelli che vengono definiti come “regimi repressivi”.
Poi, però, arriva il dettaglio che manda in frantumi la retorica: i nomi.
Perché quel memoriale avrebbe dovuto avere anche una parete con un elenco di persone da commemorare. E invece, da qualche giorno, le autorità hanno iniziato a coprire, rimuovere, rinviare. Secondo la stampa locale ci sarebbe stato perfino il timore che qualcuno potesse fotografare le targhe già installate e leggere i nomi “sbagliati”.

Il motivo è quello che oggi rende la storia quasi comica. Più della metà dei nomi proposti, secondo quanto riportato dalla stampa canadese, risultava problematica o comunque da rivedere perché collegata, direttamente o indirettamente, a ambienti nazisti, collaborazionisti o a reti ideologiche che con i “valori canadesi” dichiarati non c’entrano nulla. E quando un problema riguarda cinquanta nomi, lo chiami incidente. Quando riguarda più di 330 nomi, diventa un sistema.
Qui si incastrano tre piani diversi, ma legati tra loro: la storia del dopoguerra, la politica della diaspora, e la guerra culturale del presente.
Il primo piano è quello che in Canada molti preferirebbero trattare con la delicatezza delle mezze frasi. Nel dopoguerra il Paese è stato una meta importante per una parte della diaspora ucraina. Dentro quel flusso ci sono storie di famiglie, traumi della memoria. Ma ci sono anche le zone d’ombra, quelle che durante la Guerra fredda venivano spesso assorbite dal grande contenitore dell’anticomunismo. Non era solo il Canada, ovviamente. Era un clima politico internazionale: se eri “contro Mosca”, diventavi più facile da accogliere, più utile, meno scomodo.
Il secondo piano è quello che è esploso in faccia a Ottawa con lo scandalo che ha riguardato Yaroslav Hunka. Nel 2023 un anziano viene celebrato in Parlamento, applaudito come un combattente “per la libertà”. Poi emerge che aveva servito nella 14ª divisione delle Waffen-SS, la divisione “Galizien”, quella dei volontari ucraini nelle SS. Il caso non resta un episodio: diventa uno spartiacque. Perché, da quel momento, la domanda cambia. Non è più “come onoriamo chi è fuggito dal comunismo?”. È “chi stiamo onorando davvero quando trasformiamo l’anticomunismo in un certificato morale?”.
È un punto che in Europa orientale è da sempre incendiario, ma in Canada aveva vissuto a lungo in una bolla: la bolla delle comunità, dei rituali interni, delle commemorazioni locali. Lo scandalo Hunka ha bucato quella bolla davanti a tutti, con un effetto inevitabile: se in Parlamento puoi applaudire un ex SS, allora qualsiasi memoriale, qualsiasi lista di nomi, qualsiasi monumento in un cimitero di provincia diventa improvvisamente materia di interesse nazionale.
Ed eccoci al terzo piano: Oakville, Ontario.
Per anni, in un cimitero ucraino, è rimasto un cenotafio dedicato ai veterani della “First Ukrainian Division”, formula che viene spesso utilizzata in modo da rendere più presentabile ciò che, nella sostanza storica, rimanda alla Waffen-SS “Galizien”. Non era un oggetto neutro. Era un messaggio, e come tutti i messaggi di pietra era pensato per durare. Proteste, vandalismi, polemiche: ciclicamente la questione riemergeva, poi si richiudeva.
Nel 2024 quel monumento viene rimosso. Non perché improvvisamente la storia sia cambiata, ma perché è cambiato il contesto e, soprattutto, il costo reputazionale del silenzio. Dopo Hunka, dopo l’attenzione mediatica, dopo la sensibilità internazionale aumentata, lasciare lì un simbolo del genere non era più “una faccenda della comunità”. Era una dichiarazione pubblica che generava forte, fortissimo imbarazzo.
E qui si arriva al cuore: perché il memoriale di Ottawa e il monumento di Oakville parlano della stessa cosa.
Parlano di come l’anticomunismo, se trattato come identità e non come categoria storica, diventi una scorciatoia. Una scorciatoia che permette di saltare la domanda più scomoda: contro chi combatteva quella persona, sì, ma anche con chi combatteva? E in che cornice politica e militare?
Dal 2022 questa scorciatoia è diventata più frequente, più utile, più tollerata in certe aree del dibattito pubblico occidentale. La guerra in Ucraina ha creato una pressione narrativa fortissima: l’antirussismo come collante, l’URSS e la Russia sovrapposte in modo meccanico, la storia ridotta a una linea retta dove “nemico di Mosca” equivale a “dalla parte giusta”. In una dinamica del genere, anche figure storicamente indifendibili possono essere ripulite, perché qualcuno vuole un pantheon di simboli pronti all’uso, utili nel conflitto culturale del presente.
È un’operazione che non ha bisogno di slogan espliciti. Funziona anche con strumenti più sottili: rinominare le strade, contestualizzare in modo selettivo, spostare l’attenzione su una parte della biografia di un personaggio e cancellarne un’altra, presentare come “veterani” quelli che in realtà erano inseriti in una macchina militare e ideologica precisa, quella della Germania nazista.
Il memoriale canadese alle “vittime del comunismo” è inciampato esattamente qui. Perché quando si passa dall’idea generale ai nomi e cognomi, la storia smette di essere una narrazione e torna a essere un archivio. E l’archivio non perdona: o verifichi, o rischia di esplodere.
A quel punto, la scelta delle autorità è stata la più rivelatrice: non pubblicare l’elenco, rinviare, poi spostarsi su “contenuti tematici” al posto dei nomi. Una soluzione che suona prudente, ma che in realtà racconta un fallimento politico. Perché un monumento senza nomi è un monumento più sicuro, certo. Ma è anche un monumento meno verificabile. È la memoria che si protegge dal fact checking, non il contrario.
E il punto, alla fine, è proprio questo: il Canada non è solo “caduto” in un caso imbarazzante. Ha mostrato come funziona, in concreto, la battaglia per la memoria nel XXI secolo. Non si combatte più solo sui manuali o nei convegni. Si combatte sulle pietre, sulle targhe, sugli elenchi, sulle cerimonie. E quando la politica prova a usare la storia come strumento, spesso finisce per dover fare i conti con una storia che non si vuole vedere e coprire i nomi dei collaborazionisti, invece che avviare un reale percorso di comprensione reale della storia, guardando i faccia chi sono davvero i “combattenti contro l’Unione Sovietica” che oggi l’Occidente vuole onorare.